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Follia o finzione?

in Arte e cultura

autoritrattoNon sono certo io la persona adatta a formulare giudizi estetici di qualunque natura, ma non si possono trascurare alcuni stereotipi, archetipi ideologici e luoghi comuni nell’arte e nella vita in genere. Nella società contemporanea si assistono a comportamenti spesso estremi. Infatti la natura umana è attratta dall’inconsueto, dal confine fra realtà e immaginazione, da quella linea immaginaria che stabilisce differenze fra equilibrio e squilibrio, fra originale e banale, fra follia e ragione. Quanto più ci si avvicina a questo confine, tanto più si esercita un certo fascino sull’uomo. Ce lo insegnano i grandi filosofi e gli intellettuali, ma ci ammiccano anche le trasmissioni televisive dedicate al mistero, molti romanzi dedicati all’ignoto e così via. Anche nell’arte la follia attira ogni sorta di attenzioni. L’artista folle chi è? Probabilmente è colui che essendo arrivato molto vicino alla linea di “confine”, ha carpito nuove forme di comunicazione. L’artista folle si è affacciato, per così dire, al burrone e durante la vertigine vede cose che gli altri non vedono.

È molto difficile raggiungere questa linea di confine e il grande pubblico per questo motivo ne rimane “rapito”.
Mi chiedo oggi difronte a questo modo di essere “genio”, quanto di pertinente e di vero ci sia e quanto di palcoscenico invece venga costruito. Prendiamo un grande esempio: Van Gogh.
La sua follia estrema e autolesionista fa di lui il genio folle che quasi tutti amano, anche io in particolar modo. Non vi è dubbio sull’autenticità della sua follia, però in lui si individuano talvolta i termini di grandezza prima attraverso la sua follia e poi attraverso la sua arte. Se Van Gogh non avesse dipinto nulla, passerebbe ugualmente alla storia? Se invece avesse fatto l’artista e non fosse stato folle, sarebbe passato ugualmente alla storia? Io credo che avrebbe avuto una rilevante notorietà ma non così alta come lo è stata in effetti sino ad oggi. La sua meravigliosa innovazione pittorica, la questione della luce e il tracciato delle pennellate fanno di Van Gogh già un genio, prima ancora di ricoprire il ruolo di folle. Senza follia, la nostra società avrebbe compreso questo grande artista sino in fondo? O sarebbe rimasto un tema culturale per pochi addetti ai lavori?

Probabilmente quella carica di follia dà all’artista una connotazione più popolare, ovvero la nostra società si mostra più interessata e da più valore agli artisti quando sono “pazzi”. Il lettore mi perdoni, ma è doveroso un esempio a carattere autobiografico, un giorno un mio caro amico mi presentò un suo parente e gli disse che io ero una artista geniale (io non ci credo e mi scuso ancora con il lettore per questa auto-referenza gratuita), il punto però è che questa persona, fra le tante cose, disse che era meravigliato, si aspettava una persona trasandata, piena di colore o scontrosa come tutti i geni della pittura. Potete immaginare la mia espressione, ma questo discorso ignorante ha un retroscena piuttosto significativo.

la_stanzaL’opinione pubblica si è creata lo stereotipo dell’artista pazzo, un binomio imprescindibile e forse inseparabile. L’artista se non è pazzo, o perlomeno stravagante, non è un artista e, dato che gli stereotipi sono duri a morire, ad un certo punto anche all’artista capace e molto bravo, gli viene voglia di indossare una maschera di “finto pazzo” per acquisire punti in graduatoria. Come fa? In molti modi. Comincia a fare discorsi strampalati, si interessa all’esoterico, si veste in modo appariscente, diventa alcolista, picchia un cameriere, fonda un gruppo anarchico su Facebook e così via all’infinito. Tutto ciò però rimane solo una maschera, un ruolo, un soggetto che richiede impegno, tempo e macchinazioni cerebrali, facendo trascurare la sostanza.

La capacità dell’uomo di mentire agli altri e a se stesso lo trasforma in cose o persone che non è. Un’ipocrisia senza fine.
Le conseguenze di questa finzione sono notevoli, non tanto per l’incolumità personale o degli altri, quanto per il fatto che l’artista, ormai confuso, non crea più cose interessanti e intellettualmente valide, ma solo segni schizofrenici, pseudo visioni fantastiche e allucinazioni statiche. Secondo la metafora del burrone, è come se l’artista stoltamente crede di affacciarsi al burrone, ma quella maschera non è altro che un ballo isterico che tiene la persona inchiodata in pianura, molto distante dal burrone.

Questo tipo di opere a volte fanno mercato e sono prese d’assalto dai mercanti d’arte e critici di ogni calibro. Si tratta in realtà di un mercato senza valore, una presa in giro per impreparati, solo un commercio che ha come fine unico e ultimo l’investimento.
Voglio comunque puntualizzare che esiste fortunatamente un altro tipo di mercato, ovvero quello che si occupa con serietà di arte nella sua forma più autentica. Non è il mio scopo qui di fare un articolo sul mercato dell’arte.
La mia attenzione è rivolta al carattere dell’artista, si pensi ad esempio ai tanti artisti incompresi che, pur essendo molto capaci, restano nell’ombra perché la propria capacità manageriale è inesistente, oppure mancano le conoscenze giuste in questo o quell’ambiente. Internet per fortuna ha dato un po di respiro con le sue vetrine.
Allora occorre essere per forza “pazzi” per farsi notare? Se si è in tanti come si emerge? Giochiamo tutti a fare i pazzi? Andiamo ai talk show? Paghiamo una emittente televisiva per farci intervistare? Va a finire che se ho molti soldi posso investire e farmi conoscere, altrimenti resto sconosciuto.

In definitiva gli sforzi dell’artista contemporaneo si devono quasi obbligatoriamente incanalare nel marketing di se stessi, è la società che lo chiede.
Come diceva una nota canzone di Vasco Rossi: “…serve un complice…”, ma io aggiungo: un giusto complice, chè è già un’impresa ardua.
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Le foto dell’articolo, in ordine dall’alto:

  1. Autoritratto con cappello di paglia, 1887, 40,5 X 32,5 cm, Parigi, Amsterdam: Van Gogh Museum.
  2. Vincent Van Gogh, La stanza di Vincent ad Arles (1888), olio su tela, cm 72×90, Amsterdam, Van Gogh Museum.

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Si viaggiare

in Arte e cultura

la_buona_ventura_1594Mi sono permesso di usare il titolo di una nota canzone di Lucio Battisti per parlare di viaggi. Si di viaggi, quelli che un artista fa col corpo e con la mente.

Di solito il viaggio che un artista compie è quello di allontanarsi dalla sua terra, ma di tornarvi arricchito. Di allontanarsi dal suo corpo, ma di tornarvi turbato o meravigliato. La domanda che vi propongo oggi è: che tipo di viaggi fa l’artista?

Partiamo dal presupposto di essere più o meno tutti d’accordo sul seguente concetto: l’artista è uno studioso e un profondo intellettuale. I grandi maestri come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Caravaggio ed altri ci insegnano proprio questo. L’artista è alla continua ricerca di segni e confronti, si emancipa iper-scrutando l’iconografia degli artisti del passato e del presente. Si sposta da una città all’altra o da un continente all’altro per toccare con mano i possibili linguaggi. Oggi internet permette anche di viaggiare senza spostarsi dalla propria sedia, ma il fine rimane lo stesso: scoprire la comunicazione degli altri individui. Il bagaglio che si acquisisce apre gli orizzonti della mente e permette viaggi intellettuali più vasti. L’ignorante, inteso come chi conosce poche cose (senza polemizzare sulla questione dell’istruzione), ha un terreno mentale di pochi metri quadrati e dunque è impossibilitato a spostarsi agevolmente. Pensiamo ad uno studioso, egli ha un terreno mentale vasto come regioni o continenti, secondo quanto ha studiato. Quindi può viaggiare col pensiero molto più lontano.

Studiare e viaggiare sono complementari e si evolvono nell’artista per ottenere nuove forme estetiche. In questa meravigliosa visione dell’arte esistono, però, dei “bug” come direbbe un informatico. Vuol dire che, come tutti i viaggi, i pericoli sono sempre in agguato. La metabolizzazione delle conoscenze acquisite è proprio uno di questi bug. L’artista in coscienza deve stare molto attento ad evitare le imitazioni. Vale a dire che è molto facile per l’artista fare un viaggio, vedere o sentire una cosa interessante, tornare a casa, scopiazzare ciò che ha visto o sentito e farlo passare come proprio per passare come autore originale o, più furbescamente, come autore interpretativo. Questa non solo è una invasione alla propria e altrui cultura, ma anche un forte mancanza di rispetto verso gli altri artisti e le altre culture, “rubando” loro le idee. Inoltre l’artista che ha questo atteggiamento è quasi sicuro al 100% che nessuno se ne accorgerà. Il dramma accade quando la critica ufficiale non se ne accorge o fa finta o addirittura ne fa un merito facendo passare una certa “incapacità creativa” come fosse una “capacità interpretativa”. Faccio un altro esempio. Se nel mio viaggio trovo alcune cose interessanti, devo prima capire perché le trovo interessanti.

  1. Perchè sono semplicemente nuove soluzioni estetiche?
  2. Perchè sono immagini che si rifanno ad antiche culture e tradizioni a me sconosciute e che esercitano su di me un certo fascino?
  3. Oppure sono immagini che parlano?
  4. Cosa dicono?

chantgAlle prime due domande do una certa risposta: “Ecco, ho trovato finalmente l’ispirazione e il mio filone”, un problema che ho affrontato già nell’articolo “Uno stile inconfondibile”. Alla domanda 3 e 4 c’è un mondo che ci gira intorno.  Voglio rispondere con un altro esempio. Se un artista senegalese è riuscito a darmi delle sensazioni profonde e ad esprimere un messaggio forte, io lo prenderò in considerazione nella mia arte, ma senza farmi condizionare.  Se quell’artista porta con se un messaggio riferito alle guerre e la violenza in quei territori, io non posso commettere lo sbaglio di inserire nella mia arte il messaggio sulle quelle guerre o altre guerre. Casomai posso esprimere il sentimento provocato dalla guerra senza rappresentarla visivamente. Questo però è un altro problema. Se vedo colori che mi colpiscono in uno stile tipico africano, è inutile che io usi quei colori in Italia per portare la novità.

Per non incorrere in questi errori, un artista autentico, deve osservare un rigore professionale, valutare la sua esistenza proporzionandola all’altrui esistenza, con umiltà e grande spirito di sacrificio. Nella pratica osserverà le semplici regole del non imitare mai gli altri, nello spazio e nel tempo, nel segno o nelle idee.  La creatività deve nascere dall’io e non dal mondo esterno, il mondo è già la ricchezza da ammirare e da cui lasciarsi trasportare. Il viaggio dell’esploratore culturale, a mio modesto avviso, deve necessariamente essere solo uno stimolo e mai un riferimento. Se mento a me stesso, è chiaro che mentirò anche agli altri.

In questi anni sento sempre più spesso parlare di “esterofilia”, ovvero una forte preferenza degli italiani agli oggetti e alle arti degli altri paesi e per di più con una sempre più scarsa conoscenza e attenzione alle arti e al design italiano. La grande ricchezza culturale degli altri paesi evidenzia una  forte identità. E noi? Siamo forse davvero giunti all’impoverimento della nostra identità, nonostante la nostra grande ricchezza storica?
Ma questo è un altro capitolo.
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Le foto dell’articolo, in ordine dall’alto:

  1. Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571 Milano; 1610 Porto Ercole, Napoli) – La buona ventura – 1594 (particolare); Musei Capitolini, Pinacoteca – Roma.
  2. Iba N’Dyae (1928 Saint-Luis, Senegal;  2008 Parigi, Francia) – Chanteuse – 1990.

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